Vladimir Vladimirovic
Majakovskij
La nuvola in calzoni
PROLOGO
Il vostro pensiero,
sognante sul cervello rammollito,
come un lacchè rimpinguato su un unto sofà
stuzzicherò contro l’insanguinato
brandello del cuore:
mordace e impudente, schernirò a sazietà.
Non c’è nel mio animo un solo capello
canuto,
e nemmeno senile tenerezza!
Intronando l’universo con la possanza
della mia voce,
cammino – bello,
Teneri!
Voi coricate l’amore sui violini.
Il rozzo sui timballi corica l’amore.
Ma come me non potete slogarvi,
per essere labbra soltanto da capo a
piedi!
Venite a istruirvi
dal salotto, vestita di batista,
decente funzionaria dell’angelica lega,
voi che sfogliate le labbra
tranquillamente
come una cuoca le pagine del libro di cucina.
Se volete,
sarò rabbioso a furia di carne,
e, come il cielo mutando i toni,
se volete,
sarò tenero in modo inappuntabile,
non uomo, ma nuvola in calzoni!
Non credo che esista una Nizza floreale!
Da me di nuovo sono esaltati
uomini che a lungo hanno poltrito come un
ospedale
e donne logore come un proverbio.
******************1*****************
Voi pensate che sia il delirio della
malaria?
Ciò accadde,
accadde a Odessa.
«Verrò alle quattro» – aveva detto Maria
Le otto.
Le nove.
Le dieci.
Ed ecco anche la sera
nel ribrezzo notturno
se n’è andata via dalle finestre
lugubre,
dicembrina.
Nella sua schiena decrepita sghignazzano e
nitriscono
i candelabri.
In questo istante non potreste
riconoscermi:
una congerie di nervi
geme,
si contorce.
Che può volere un simile masso?
Oh, questo masso ha molte voglie!
In realtà non importa
che tu sia di bronzo
e il cuore una fredda piastra di ferro.
La notte si ha desiderio di nascondere
il proprio suono in un morbido
corpo di donna.
Ma ecco,
gigantesco,
mi incurvo alla finestra,
ne struggo con la fronte il vetro.
Ci sarà, non ci sarà l’amore?
E di qual dimensione,
grande o minuscolo?
Di dove un grande amore in un tal corpo?
Probabilmente un piccolo,
un mansueto amoruccio,
che si scansa se un’auto strombetta
ed ama i campanellini dei cavalli.
Ancora e ancora,
stringendomi alla pioggia,
col viso nel suo viso butterato,
aspetto,
e mi spruzza lo scroscio della risacca
cittadina.
Mezzanotte, agitandosi con un coltello,
l’ha raggiunta
e sgozzata:
fuori dunque!
La dodicesima ora è caduta
come dal patibolo la testa d’un
giustiziato.
Nei vetri grigie goccine di pioggia
si sono attorcigliate con un urlo,
accatastando una smorfia massiccia,
quasi ululassero le chimere
sulla cattedrale di Nôtre-Dame di Parigi
Maledetta!
Ebbene, ancora non basta?
Fra poco da un grido sarà squarciata la
bocca.
Sento
che senza rumore,
come un malato dal letto,
un nervo è balzato.
Ed ecco:
dapprima passeggia
appena appena,
poi piglia la corsa,
agitato,
preciso.
Ed ora lui e altri due accanto a lui
si dibattono come un fanello disperato.
È crollato l’intonaco al pianterreno.
Nervi
grandi,
minuscoli,
molteplici
saltellano rabbiosi
e un attimo dopo
più non si reggono in gambe.
Ma la notte sempre più s’impantana per la
stanza, –
dalla melma non può districarsi l’occhio
appesantito.
Tutt’a un tratto le porte si son messe a
cigolare;
quasi l’albergo
battesse i denti dal freddo.
Sei entrata tu
tagliente come un «eccomi!»,
tormentando i guanti di camoscio,
hai detto:
«Sapete,
io prendo marito».
Ebbene, sposatevi.
Che importa.
Mi farò coraggio.
Vedete, sono così tranquillo!
Come il polso
d’un morto.
Non vi sovviene?
Voi dicevate:
«Jack London
denaro,
amore,
passione», –
ma io vidi una sola cosa:
vidi in voi una Gioconda
che bisognava rubare
E vi hanno rubata.
Innamorato, rientrerò nel giuoco,
rischiarando col fuoco la curva delle
ciglia.
Ebbene!
Anche in una casa distrutta dalle fiamme
dimorano talvolta vagabondi privi d’asilo!
Volete stuzzicarmi?
«Valgono meno delle copeche d’un mendico
gli smeraldi delle vostre follie».
Ricordate!
Perì Pompei
quando esasperarono il Vesuvio
Ehi!
Signori!
Dilettanti
di sacrilegi,
di delitti,
di massacri,
avete visto mai
ciò che è più terribile:
il viso mio
quando
io
sono assolutamente tranquillo?
E sento
che l’ io
per me è poco.
Qualcuno da me si sprigiona ostinato.
Allô!
Chi parla?
Mamma?
Mamma!
Vostro figlio è magnificamente malato!
Mamma!
Ha l’incendio del cuore.
Dite alle sorelle Ljuda e Olja
ch’egli non sa più dove rifugiarsi.
Ogni parola,
persino ogni burla
ch’egli vomita dalla bocca scottante
si butta come nuda prostituta
da una casa pubblica che arde.
Gli uomini annusano:
odor di bruciato!
Raccozzano dei tipi strani.
Rutilanti!
Con gli elmi!
A che scopo quegli stivaloni!
Dite ai pompieri:
sul cuore ardente ci si arrampica con le
carezze.
Farò da me.
Rotolerò come botti gli occhi gonfi di
lacrime.
Lasciatemi appoggiare alle mie costole.
Salterò! Salterò! Salterò! Salterò!
Sono crollati.
Non puoi saltare dal proprio cuore!
Sul viso in fiamme
dallo spacco delle labbra
un piccolo bacio carbonizzato cresce per
lanciarsi.
Mamma!
Non posso cantare.
Nella chiesetta del cuore la cantorìa
prende fuoco!
Combuste figurine di parole e di cifre
schizzano dal cranio
come bambini da un edificio che avvampa.
In modo non diverso la paura
sollevò,
ansiose di aggrapparsi al cielo,
le braccia fiammeggianti del «Lusitania»
Verso coloro che tremano
nella quiete degli appartamenti
con cento occhi un bagliore s’avventa
dalla banchina.
Ultimo grido,
tu almeno
gemi nei secoli che io sto bruciando!
************ 2
*************
Glorificatemi!
Non sono pari ai grandi.
Su tutto ciò che fu creato
pongo il mio nihil.
Non voglio
mai leggere nulla.
Libri?
Ma che libri!
Una volta pensavo
che i libri si facessero cosi:
arriva un poeta,
lievemente disserra la bocca,
e di colpo comincia a cantare il
sempliciotto ispirato:
di grazia!
E invece risulta che i poeti,
prima di effondersi nel canto,
camminano, incalliti dal lungo girellare,
e dolcemente diguazza nella melma del
cuore
la stupida tinca dell’immaginazione.
Mentre fanno bollire, strimpellando rime,
una brodaccia di amori e usignuoli,
la via si contorce priva di lingua:
non ha con che discorrere e gridare.
Noi torniamo a innalzare con superbia
torri babilonesi di città,
ma Iddio
dirocca di nuovo
le città in campagne arate,
mescolando le parole.
La via trascinava in silenzio il suo
tormento.
Un grido le si rizzava dalla faringe.
Si gonfiavano, incagliati attraverso la
sua gola,
tassì paffuti e scarne carrozze.
Le calpestarono il petto.
Peggio d’una tisi.
La città sbarrò la strada col buio.
E quando
– tuttavia! –
la strada scatarrò la calca sulla piazza,
dopo avere respinto un sagrato che le
schiacciava la gola,
parve
che fra i cori degli arcangeli
Dio, depredato, si recasse a far
giustizia!
Ma la via si sedette strepitando:
«Andiamo a divorare!»
Truccano la città Kruppi e Kruppetti
con le rughe di ciglia minacciose,
mentre nella bocca
si decompongono parole morte.
Solo due sopravvivono, ingrassando:
«canaglia»
e ancora un’altra
che sembra sia «minestra».
I poeti,
inzuppati nel pianto e nel singhiozzo,
si danno alla fuga, arruffando le chiome:
«Come cantare con due parole simili
la signorina
e l’amore
e il fiorellino sotto la rugiada?»
E dietro ai poeti
le turbe di strada:
studenti,
prostitute,
appaltatori.
Signori!
Fermatevi!
Voi non siete accattoni,
voi non osate chieder l’elemosina!
Noi gagliardi
dal passo poderoso
non abbiamo bisogno di ascoltare,
ma piuttosto di svellere costoro
che si sono appiccati come un’aggiunta
gratuita
a ogni letto a due piazze!
Si dovrebbero forse umilmente implorare:
«Prestateci aiuto!»,
supplicarli di un inno,
di un oratorio!
Noi stessi siamo artefici nell’ardente
inno.
frastuono della fabbrica e del
laboratorio.
Che m’importa di Faust
che in una ridda di razzi
scivola con Mefistofele sul pavimento del
cielo!
Io so
che un chiodo nel mio stivale
è più raccapricciante della fantasia di
Goethe!
Io,
che ho la bocca d’oro più d’ogni altro
e con ogni parola
rigenero l’anima
e do un onomastico al corpo,
vi dico:
il minimo granello di polvere d’un vivo
vale più di quello che farò e che ho
fatto!
Ascoltate!
Predica,
dimenandosi e gemendo,
l’odierno Zarathustra dalle labbra urlanti!
Noi
dal viso come lenzuolo assonnato,
dalle labbra pendenti come lampadario,
noi,
galeotti della città-lebbrosario,
dove oro e fango hanno ulcerata la lebbra,
noi siamo più puri dell’azzurro veneziano,
lavato a un tempo dai mari e dai soli!
Me ne infischio
se negli Omeri e negli Ovidi
non c’è gente come noi,
butterata e coperta di fuliggine.
Io so
che il sole si offuscherebbe a vedere
le sabbie aurifere delle nostre anime!
Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte
le preghiere.
Dovremmo impetrare le grazie dal tempo?
Ciascuno
di noi
tiene nelle sue cinque dita
le cinghie motrici dei mondi!
Ciò mi fece salire sui Golgota degli
auditorî
di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev,
e non vi fu uno solo
il quale
non gridasse:
«Crocifiggi,
crocifiggilo!»
Ma a me
voi uomini,
compresi quelli che mi hanno insultato,
siete più cari e più prossimi d’ogni altra
cosa.
Avete visto
come il cane lecchi la mano che lo batte?!
Io,
dileggiato dall’odierna generazione
come un lungo
aneddoto scabroso,
vedo venire per le montagne del tempo
qualcuno che nessuno vede.
Là dove l’occhio degli uomini si arresta
insufficiente,
alla testa di orde affamate
con la corona di spine delle rivoluzioni
avanza l’anno sedici.
Ed io presso di voi sono il suo precursore
io sono sempre là dove si soffre:
su ogni goccia di fluido lacrimale
ho posto in croce me stesso.
Ormai non si può perdonare più nulla.
Io ho incendiato le anime, dove si
coltivava la tenerezza.
Questo è più difficile che prendere
migliaia di migliaia di Bastiglie!
E allorché,
proclamando con una sommossa
il suo avvento,
uscirete incontro al Salvatore,
io
vi strapperò l’anima
e, dopo averla calpestata
perché sia grande,
ve la darò insanguinata come un vessillo!
************** 3
****************
Ah, per quale ragione,
di dove
nella lucente allegria
questo agitarsi di sordidi pugnacci!
Venne
e velò la testa con la disperazione
il pensiero dei manicomi.
E
come nel naufragio d’una dreadnought
per gli spasmi soffocanti
si lanciano nel boccaporto spalancato,
così attraverso il suo
occhio lacerato sino all’urlo
si inerpicava, impazzito, Burljùk.
Quasi insanguinando le palpebre corrose
dalle lacrime,
ne strisciò fuori,
si mise in piedi,
si mosse
e con tenerezza inattesa in un uomo pingue
mi prese e disse:
«Bene!»
Bene, quando una gialla blusa
protegge l’anima da tanti sguardi!
Bene,
quando, scagliati fra i denti del
patibolo,
si grida:
«Bevete cacao van Houten!»
E quest’attimo
bengalico,
squillante
non cambierei con nulla,
nemmeno con...
Ma dal fumo d’un sigaro
come un bicchierino di liquore
si è allungato il viso alticcio di
Severjànin.
Come osate chiamarvi poeta
e, mediocre, squittire come una quaglia?
Oggi,
bisogna
a mo’ di frangicapo
conficcarsi nel cranio del mondo!
Voi,
turbati dal solo pensiero
di ballare con eleganza,
osservate in qual guisa me la spasso
io,
truffatore di carte
e ruffiano di piazza!
Da voi
che siete fradici d’amore,
da voi
che nei secoli grondaste lacrime
io mi staccherò,
incastrando il sole
come un monocolo nel mio occhio
divaricato.
Camuffatomi in modo incredibile,
me ne andrò per la terra
a destar godimento e ad infiammarmi,
e innanzi a me condurrò alla catena
Napoleone come un bòtolo.
La terra tutta, sdraiandosi come una
donna,
dimenerà le sue carni, vogliosa di darsi;
le cose si animeranno,
le labbra delle cose
biascicheranno:
«zàza, zàza, zàza!»
A un tratto
i cirri
e il resto della nuvolaglia
levarono sul cielo un incredibile rullìo
come se bianchi operai si separassero,
dopo aver dichiarato un rabbioso sciopero
al cielo.
Un tuono da dietro una nube strisciò fuori
imbestialito,
si soffiò le enormi narici con aria
provocante,
e il volto del cielo si corrugò per un
attimo
con la rigida smorfia d’un ferreo Bismarck,
E qualcuno,
che si era impigliato nelle pastoie dei
nembi,
protese le braccia verso un caffè
con maniere donnesche
e amorevole quasi,
e quasi fosse affusto di cannone.
Voi pensate
sia il sole a dare un buffetto
dolcemente alla guancina del caffè?
E invece di nuovo a fucilare gli insorti
avanza il generale Galifet!
Cavate, bighelloni, le mani dalle brache:
prendete una pietra, un coltello o una
bomba,
e se qualcuno è sprovvisto di mani,
è venuto per battersi magari con la
fronte!
Fatevi avanti, affamati,
molli di sudore,
umili,
inaciditi nel sudiciume pulcioso!
Fatevi avanti!
I lunedì e i martedì col sangue
noi tingeremo a festa!
Sotto i coltelli la terra ricordi
chi voleva rendere triviale!
La terra,
impinguata come un’amante
su cui Rothschild sfogò la sua libidine!
Perché garriscano bandiere nella febbre
delle scariche,
come in ogni festa ragguardevole,
levate in cima, pali dei lampioni,
le insanguinate carcasse dei mercanti.
Bestemmiava,
implorava,
trinciava,
si arrampicava dietro qualcuno
per addentarne i fianchi.
Sulla volta celeste, rosso come la
marsigliese,
sussultava, crepando, il tramonto.
Ormai la follia.
Non ci sarà più nulla.
La notte verrà
a rodere
e a mangiare.
Vedete? Come un Giuda
vende di nuovo il cielo
per una manata di stelle spruzzate di
tradimento.
È venuta.
Banchetta alla maniera di Mamaj,
appollaiata sulla città.
Non riusciremo a sbrecciare con gli occhi
questa notte nera come Azèf!
Mi rannicchio nel fondo d’una bettola,
innaffio col vino l’anima e la tovaglia
e vedo
in un angolo occhi rotondi.
Si è confitta con gli occhi nel mio cuore
la Madre di Dio.
Perché far dono alla marmaglia della
bettola
di un’aureola dipinta secondo uno stampo?
Vedi? Ancora una volta
preferiscono Barabba
al martire del Golgota coperto di sputi.
Io, forse, a bella posta
nell’accozzaglia umana
non ho il viso più nuovo di quello degli
altri.
Io,
forse,
sono il più bello
di tutti i tuoi figli.
Concedi loro,
ammuffiti nel gaudio,
una rapida morte del tempo,
perché i bambini che devono crescere,
se ragazzi, diventino padri,
se fanciulle, rimangano incinte.
E fa’ che i neonati si coprano
della canizie scrutatrice dei Re Magi,
ed essi verranno
a battezzare i bambini
coi nomi dei miei versi.
Io, che decanto la macchina e
l’Inghilterra,
sono forse semplicemente
nel più comune vangelo
il tredicesimo apostolo
E quando la mia voce
strilla oscenamente
da un’ora all’altra
per intere giornate,
forse Gesù Cristo annusa
le miosotidi della mia anima.
***************** 4 ******************
Maria! Maria! Maria!
Lasciami entrare, Maria!
Non posso restare in istrada!
Non vuoi?
Tu aspetti
che con le guance infossate,
assaggiato da tutti,
insipido,
io venga
a biascicar senza denti:
«Sono oggi
mirabilmente onesto».
Maria,
vedi:
ho già cominciato a incurvarmi.
Nelle vie
gli uomini bucheranno il grasso nei loro
gozzi a quattro piani,
sporgeranno gli occhietti
lisi da quarant’anni di logorio,
per ammiccare l’un l’altro ghignando
che fra i miei denti
– di nuovo! –
è il panino raffermo della carezza di
ieri.
Zuppo ladruncolo stretto dalle
pozzanghere,
la pioggia, spruzzando singhiozzi sui
marciapiedi,
lecca il cadavere delle vie tartassato dai
ciottoli,
e sulle ciglia canute
– sì! –
sulle ciglia dei ghiacciuoli
gocciano lacrime dagli occhi
– sì! –
dagli occhi abbassati delle grondaie.
Succhiò tutti i pedoni il muso della
pioggia,
mentre nelle vetture luccicava una fila di
pingui atleti:
scoppiavano certuni,
rimpinzati a crepapelle,
e attraverso gli spacchi stillava la sugna,
come un torbido fiume dalle vetture
scolava,
insieme con un pane maciullato,
la masticatura di vecchie cotolette.
Maria!
Come ficcare una dolce parola nel loro
orecchio coperto di grasso?
L’uccello
va mendicando con una canzone,
canta,
affamato e squillante,
ma io sono un uomo, Maria,
semplice,
scatarrato dalla notte tisica nella
sudicia mano della Presnja.
Maria, vuoi un uomo simile?
Lasciami entrare, Maria!
Con lo spasmo delle dita stringerò la gola
metallica del campanello!
Maria!
Diventano feroci i pascoli delle strade.
Sul collo come una scalfittura le dita
della calca.
Apri!
Fanno male!
Vedi? Sono confitti nei miei occhi
gli spilli dei cappelli femminili!
Mi ha lasciato entrare.
Bambina!
Non ti spaurire
se sul mio collo taurino
seggono come un’umida montagna donne dal
ventre sudato:
gli è che attraverso la vita io trascino
milioni di enormi casti amori
e milioni di milioni di minuscoli sudici
amorucci.
Non ti spaurire
se ancora una volta
nell’intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose
faccine.
«Adoratrici di Majakovskij!»:
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d’un pazzo.
Maria, più vicino!
Con denudata impudenza
oppure con un pavido tremore
concedimi la florida vaghezza delle tue
labbra:
io e il mio cuore non siamo vissuti
neppure una volta sino a maggio, e nella mia vita passata
c’è solo il centesimo aprile.
Maria!
Il poeta canta sonetti a Tiana,
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono:
«Dacci oggi
il nostro pane quotidiano.»
Maria, concediti!
Maria!
Io temo di scordare il nome tuo
come un poeta teme di scordare
qualche
parola nata fra i tormenti delle notti,
uguale per grandezza a Dio.
Il tuo corpo
io saprò custodire ed amare
come un soldato
stroncato dalla guerra,
inutile,
ormai di nessuno,
custodisce la sua unica gamba.
Maria,
non vuoi?
Non vuoi?
Ah!
Ed allora di nuovo,
afflitto e cupo,
io prenderò il mio cuore
e, irrorandolo di lacrime,
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.
Con il sangue del cuore allieterò la
strada,
fiori di sangue si incolleranno alla
polvere della mia giubba.
Mille volte danzerà come Erodiade
il sole attorno alla terra-
cranio del Battista.
E quando avrà finito di danzare
il mio numero di anni,
d’un milione di gocce di sangue si coprirà
la traccia
che mena alla casa di mio padre.
Uscirò fuori
sudicio (per le notti trascorse nei
fossati),
mi metterò al suo fianco,
mi chinerò
per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!
Non vi dà noia
inzuppare ogni giorno
nella composta di nuvole gli occhi
ingrassati?
Su via, vediamo insieme
di fare un carosello
sull’albero della conoscenza del Bene e
del Male!
Onnipresente, tu sarai in ogni armadio,
e a tavola porremo vini tali
che anche all’accigliato Pietro Apostolo
verrà voglia di ballare un ki-ka-pù.
E in paradiso di nuovo ospiteremo le
Evucce:
basta che tu dia un ordine
e questa notte stessa
ti porterò in gran frotta
da tutti i viali le ragazze più belle.
Vuoi?
Non vuoi?
Scrolli la testa capelluta?
Aggrondi le ciglia canute?
Tu pensi
che quello con le ali
che ti sta dietro
sappia cosa sia l’amore?
Anch’io sono un angelo; io lo ero,
guardavo negli occhi come un agnello di
zucchero,
ma non voglio più offrire alle giumente
vasi plasmati nella farina di Sèvres.
Onnipossente che hai inventato un paio di braccia
e hai fatto sì che ciascuno
avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?!
Pensavo che tu fossi un gran Dio
onnipotente,
e invece sei un insipiente, un minuscolo
deuccio.
Vedi, io mi curvo,
di dietro il gambale
traggo il trincetto.
Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Rabbuffate le vostre piumette in uno
sbigottito brividìo!
Te, impregnato d’incenso, io squarcerò
di qui sino all’Alaska!
Lasciatemi!
Non mi fermerete.
Sia che mentisca
o mi trovi nel giusto,
non potrei essere più calmo.
Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle,
insanguinando il cielo come un mattatoio!
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
Sordo.
L’universo dorme,
poggiando sulla zampa
l’enorme orecchio con zecche di stelle.
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