mercoledì 29 luglio 2020

Rimanenze

Sta lì. Ma senza imperativi. Figurarsi categorici. Star lì. Definendo luoghi e soggetti (in luogo di…) e oggetti e condizioni e fini penultimi, ché le ultimazioni o gli ultimativi girano al largo, non vediamo e non possiamo/vogliamo vedere. Giusto il giusto. Ora sfebbrati, ora liberati dai fuochi e dai relativi giochi che… quel piccolo piacere nel giacere nel braciere di una strappata voluttà…
Come il polso di un morto. Nuvole e canzoni. Dove vanno le nuvole. Vanno e vengono, certo e prendono forme che il vento, per brevi inattendibili (nessuno può crederci) momenti, presta loro. Canzoni e calzoni (caldi appena sfornati o appena lavati od asciugati, stesi come siamo tutti con la testa appoggiata sull’erba a guardare stelle e nuvole e luna e quello che c’è nelle ore che si somigliano tutte, un brivido appena o il sole, se c’è , a scottarci la pelle, ma senza salvarci, anzi, ancora una volta ad ucciderci piano) ma senza musica, prego.
Sta lì. Ma è fuggito e sfuggito e ancor fuggitivo. Da sé e da quello che c’è. Intorno e anche dentro e fuori da tutto e da tutti. Le labbra cianotiche, tremando e tramando e mandando all’inferno l’inverno del nostro contento, gli occhi a fissare le cose che stanno, che vanno, delusi ma no, l’incedere stanco verso un ignoto che ormai conosciamo e verso cui, assenti di più acuta presenza, ormai procediamo col solito passo. Il delirio s’è fatto e s’è sfatto. Le parole sporcate dall’ovvio declino deciso e reciso da chi più non la vuole, se duole, la vita che vita si fa. Il fresco e il tepore e le attese in riprese ordinate da ordine e caos. Ordigno di morte. L’ordito crudele in storie di sesso e d’amore appassito e trapassata passione.
E il conto alla fine. Pagando il dovuto. Sia stato quello che è stato. Un contratto, un libero scambio, uno sprofondo d’angoscia, la contrizione pentita e già postuma, inganno od incanto oppure illusione, delizia di lubrica malcelata malizia, pretesa o riscatto o ricatto o lascivo abbandono. Non chiedere alla memoria il resoconto di una piccola ignobile storia a cuori di cani nella tormenta. Tutto era già stato ancora prima che tutto accadesse. E tutto sarà come se nulla fosse accaduto. Per sempre e mai più.
Fino alla polvere o cenere o neve che tutto ricopre (il tempo, il vulcano, i morti). È solo un piccolo tempo che pomposamente chiamiamo infinito il tratto che ci segue e precede. E la vita? Reclama l’innocente spietato (la vita reclama o è una domanda scomposta e irrisolta? Chi sa?). Risposta immantinente riposta: È qui. Fatta di troppi infiniti momenti da dimenticare. Per dimenticare.
La cara complicità di una carezza. Un lago di lacrime amare. Salsedine e vaghi rimpianti. Perfino dolcezza. Perfino languore. Lavorando di sgorbia e abrasivi. Lisciando e leggermente soffiando col capo inclinato. A guardare, a gemere, a toccare l’imprevedibile abisso che avviene. E non più risalire. Non più risalire.

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